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«Più il teatro verrà purificato, più incontrerà il gusto delle persone intelligenti e raffinate; ma andrà allo stesso tempo perdendo la sua originaria efficacia e destinazione. Mi sembra (…) di poterlo paragonare a uno stagno che non deve contenere soltanto acqua limpida, ma anche una certa quantità di melma, di alghe e di animaletti perché i pesci e gli uccelli acquatici vi si possano trovare bene». J. W. von Goethe, La vocazione teatrale di Guglielmo Meister

Rivoluzioni! teatrosustrada.2020 è dedicato a Giovanni Moretti e si ispira, in particolare, a due suoi pensieri:
«Il teatro è pedagogico: lo è per sua natura».
«L’attore è uno che si compromette».

L’architettura degli eventi (distribuiti su tre linee d’azione: Strad-rama, Teatro di riciclo e Festa dell’umanità), delle collaborazioni e dei sostegni di Rivoluzioni! teatrosustrada.2020 si definisce in itinere, per sfruttare al meglio lo spirito provvisorio e avventuroso che il progetto tenta di incarnare.

L’attore accetta inviti e suggerimenti, si sposta e cerca incontri.

Alla base vi è, anche, il concetto di storyplaying:


(…) Ragionando sulle esperienze di contaminazione che abbiamo sinora messo a confronto, si può affermare che:

– l’istituzionalizzazione delle esperienze teatrali rischia di favorire e promuovere, nella maggior parte dei casi, l’attore che non ha un mondo, il mero esecutore, che non si domanda neppure quale cultura lo circondi;

– l’attore «che ha un mondo; e poi, è anche attore», riversa quel mondo nel “fare” il suo teatro, e viceversa; e se non si riconosce nel sistema e/o nel/nei movimenti culturali che lo circondano, sente il bisogno di creare un suo movimento culturale. E lo fa perché, sentendo di avere “un’altra cultura”, ne ha le capacità o comunque pratica con sana incoscienza l’utopia che lo porta a ottenerle. «È un operatore culturale» direbbe Carmelo Bene; «l’attore è uno che si compromette» direbbe Giovanni Moretti; «la soluzione sempre fuori dal sistema» direbbe Gian Renzo Morteo (così citato da Alfonso Cipolla nella sua 
Nota alla prefazione in Ipotesi sulla nozione di teatro, Edizioni SEB27, 2019 Torino)

Per quanto riguarda l’oggi, evitando scrupolosamente – come ci siamo proposti – di valutare singole esperienze, possiamo però individuare un “termometro di crisi”. Non è certo l’unico, ma ci limiteremo, qui, a esaminare questo. È annidato nel linguaggio.

Si fa grande uso, ovunque, del termine storytelling.

Nella voce dedicatagli dal vocabolario Treccani, lo storytelling è definito: “Affabulazione, arte di scrivere o raccontare storie catturando l’attenzione e l’interesse del pubblico”. Accompagnano poi la dicitura “Dall’ingl. storytelling (‘narrazione di storie’)”, alcune citazioni da testate nazionali, che ne attestano la diffusione sin dal 1990: diffusione che, se ci si attiene alla natura delle citazioni stesse, parrebbe doversi intendere limitata all’ambito teatrale o comunque strettamente spettacolare.

Che la narrazione, soprattutto orale, abbia a che fare con il teatro e lo spettacolo, d’altronde, è dato certo: la narrazione, in primis, incarna quella complessa elementarità che fa del teatro «la cellula primordiale dello spettacolo».

Digitando poi storytelling nei motori di ricerca più diffusi in rete, se ne trovano svariate definizioni, che tutte proprio rimandano all’atto del narrare, sia orale che scritto, con un focus particolare, però, sulla sua efficacia e sulle tecniche utilizzate per ottenerla; in percentuale stravincono poi i siti che lo abbinano ad attività di tipo industriale, dipingendo quella sua stessa efficacia come essenziale per accrescerne la resa, anche in termini commerciali.

Lo storytelling può farlo chiunque e può essere oggetto di scambi formativi aldilà degli ambiti artistici, parrebbe di capire. Che si tratti di una nuova forma di «libera espressione collettiva»? Non proprio. Negli ultimi tempi anche molti teatranti, soprattutto nelle loro proposte di corsi (ma anche nel caso di occasioni spettacolari), utilizzano il termine storytelling; e, già solo da un’indagine sommaria, balza agli occhi il fatto che, almeno nella maggior parte dei casi, provano semplicemente a “vendere tecniche”, spesso garantite come infallibili. Docenti specializzati e sicuri per formare infallibili specialisti del domani.

Possiamo ipotizzare che il potenziale venefico dell’istituzionalizzazione abbia fatto scuola e abbia instillato in ogni anello della catena sociale, culturale e industriale la vocazione a fare proliferare gli “attori fini a sé stessi”, in nome di un serissimo neo-liberismo artistico.

Propongo, anch’io in modo serissimo, la sostituzione del vocabolo, laddove i fatti o le vocazioni ad agire lo permettano: storyplaying al posto di storytelling. Curiosamente e per ironia della sorte, il termine storyplaying si trova ora in rete riferito soprattutto ad applicazioni che fanno interagire lo storytelling con i videogiochi; noi intendiamo usarlo anche con altre accezioni, riferendoci per intero alla poli-semanticità del verbo “to play”.

Non si tratta solamente di trovare una tecnica utile a raccontare una storia, la storia e le storie: una modalità di racconto dall’”effetto garantito”. Si tratta di cercare, sì, “il modo per raccontare ed evocare – o far raccontare/evocare – le cose” (e in quest’affermazione, davvero, può rientrare qualunque categoria dello spettacolo e della formazione; e qualunque corrente o avventura artistica, qualunque), ma di farlo mediante una precisa assunzione di responsabilità, che ci spinga a investire in progetti cangianti, affetti da frenetiche pulsioni autorigeneranti e da un colorato erotismo libertario, nel quale confluiscano il teatro, le altre arti, la didattica, la storia e le scienze in genere.

Reti di azioni che, partendo da nuclei minimi di creazioni formalizzate, non siano totalmente tracciabili nell’avventuroso evolversi dei loro esiti: azioni anche istituzionali, ma mai “istituzionalizzate”, quindi difficilmente intaccabili in ogni loro componente che, in quanto intrecciata a esperienze teatrali, vada a tangere i terreni del magico, dell’invisibile, dell’avventura, dell’irrazionalità, dell’empatia, di tutto ciò che superi il limite posto dai concetti di mera rappresentazione e di prodotto.

Nel nostro storyplaying occorrerebbero allora arcipelaghi contaminanti non mappabili, ma consapevoli e cercati. E non basati su capillarità geografica o su scambi produttivi/distributivi; ma sulla base di progettualità che promuovano autonomie interne e che facciano ciascuna capo a un movimento culturale condiviso, cercato o consolidato che sia (valgono, qui, tutte le fasi temporali intermedie).

In tali res publicae volatili dunque, gli operatori culturali, ancor prima della consapevolezza riguardo agli effetti possibili della propria azione contaminante, faranno valere la consapevolezza del proprio denominatore comune.

Nei “nuovi arcipelaghi” non basterà, insomma, la coscienza dei singoli riguardo alla capacità contaminante (in senso orizzontale) del loro «avere un mondo e poi» essere «anche attori»; gli arcipelaghi contaminanti varranno se ogni isola di ciascun arcipelago – e ogni nave che farà la spola fra loro – sarà forte di un minimo denominatore comune cercato che, noto a tutti gli attori, abbia la mobilità necessaria per rigenerarsi in continuazione e difendersi dai rischi dell’istituzionalizzazione: un movimento culturale condiviso e compartecipato, insomma.

In questo modo, per citare un pensiero di Silvano Antonelli, «le contaminazioni e le relazioni» dovranno guardare «in tante direzioni; sicuramente orizzontali e verticali, ma tenendo anche conto delle infinite diagonali che si incontrano muovendosi nello spazio».

Si tratta di elaborare idee per un teatro, o meglio per più teatri che assumano funzione contaminante e diventino strumento e motore di moti culturali ampli, eterogenei, avventurosi e trasversali: di intelligenti disordini.

Principi imprescindibili saranno la creazione (o l’integrazione, laddove se ne incontrino) di stabilità provvisorie e la valorizzazione delle autonomie e delle difficoltà, da trasformarsi in opportunità.

E se il termometro fosse fallace e non ci fosse alcuna crisi cui occorra reagire? Non importa, valgono anche le crisi sognate, se possono diventare opportunità di riflessione e trasformazione. “Ipotesi di trasformazione”, per usare, in modo lievemente improprio (ma mi assumo la responsabilità di un peccato veniale), altre parole di Morteo.

Ancora di Morteo possiamo leggere, a mo’ di viatico,

«un’ultima osservazione: se è vero, come storicamente riteniamo sia, che il teatro è la cellula primordiale dello spettacolo, quella in cui bisogni, tecniche e dinamiche relazionali si manifestano nel modo più semplice ed evidente, sarà opportuno che la scuola non lo contrapponga al mondo dei media (che raccoglie tra i giovani consensi molto più immediati), ma al contrario se ne serva come chiave di decodificazione di base dell’intero sistema dello spettacolo odierno, se non addirittura della società dell’immagine in cui viviamo».

Si tratta del documento conclusivo del Convegno di studi per insegnanti e operatori teatrali, Teatro in classe ad Alessandria (ciclostilato). Morteo scrisse e pronunciò queste parole il 22 novembre 1987. Prosit.

(da «Quali attori e quali “teatri”? Storyplaying, per una contaminazione possibile. Con suggestioni da C. Bene, G. Moretti, G.R. Morteo» di Marco Gobetti – https://fareapezzilteatro.wordpress.com/2020/04/14/storyplaying/